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Letture e spunti Maestri

L’arte di morire

Un titolo che invita agli scongiuri, alla reazione ironica come meccanismo di difesa, che spaventa forse, perchè il tema, si sà, non è di quelli accattivanti da réclame, non si adatta all’immagine della fotomodella in posizione acrobatica e pacificata in riva al mare.

Migliorarsi, progredire, evolversi, perfezionarsi: ecco i mantra della nostra epoca, figli di una certa cultura New Age che ci rende schiavi di una fantasia e di un mito che ci vogliono in costante competizione con noi stessi e con gli altri, per divenire altro da ciò che siamo. Ma c’è un altro modo di intendere la pratica dello Yoga.

Qual’è la quintessenza dello Yoga del Kashmir che Lei trasmette?
È un’arte tradizionale di morire. Quando la rappresentazione che abbiamo di noi stessi scompare rimane la vita. Lo yoga classico è basato sull’idea della nostra povertà e allora si fanno degli esercizi per arricchirsi, per diventare più spirituali. Nello yoga del Kashmir, invece, si considera che siamo già ricchi e che ogni azione è una manifestazione di questa ricchezza. In quest’ottica, la ricchezza si trova dietro di me, non davanti. Quando le nostre proiezioni sulla realtà cadono rimane la vita, lo stupore, la gioia». […] Lo yoga del Kashmir non prevede alcuna nozione di progressione, il fatto di mantenere un poco di più o un poco di meno le posizioni non ci riguarda. Ma quando ci si è resi conto che non c’è niente da acquisire, niente da difendere, niente di cui appropriarsi, scopriamo di avere un sacco di tempo libero e a quel punto l’esplorazione della posa può prolungarsi. In quest’arte, il nostro strumento di esplorazione è la sensibilità, non per svilupparla ma per lasciare che muoia. Quando ogni percezione muore nel cuore c’è tranquillità. Questo è il fulcro della pratica. 

Passi da un intervista di Emina Cevro Vukovic a Eric Baret –  da “Yoga Journal”, anno V, n.30, febbraio 2009

Per molti di noi risulta rassicurante il fatto di incrementare il proprio “tesoretto spirituale” accumulando conoscenze, tecniche, seminari, ecc. Non altrettanto scontato è divenire coscienti di come questo meccanismo ci avviluppi invece ulteriormente in un bozzolo di false sicurezze, fatto di memorie totalmente ondivaghe.

[…] Si vive esattamente come si muore e si muore come si vive. Se si vive nella paura, si muore nella paura. Se si vive in modo disponibile, si muore in modo conseguente. Dimenticate la morte e datevi apertamente alla vita. Quando avete l’opportunità di sentire la paura, dite grazie. Se la provate ora, non dovrete subirla più tardi sul letto di morte. Lasciatela parlare sensorialmente. Voi non avete paura, voi sentite la paura. A poco a poco si svuota. Quando vi capita di avere paura, se tentate con certe tecniche di minimizzarla, la rincalzate un po’ di più ogni volta ed essa vi raggiungerà al  momento della morte.
Vivere disponibili. La morte diventa un non-avvenimento e non ci pensate più. Non è necessaria nessuna conoscenza. Evitate di leggere il libro tibetano dei morti. Non rimandate più la vita preparandovi alla morte. Inutile entrare nelle fantasmagorie religiose, culturali o allora, se vi sembra indispensabile, fatelo, ma avendo coscienza che è una fantasia. Non c’è bisogno di preti né di conoscenze esoteriche.
Morte alla proprie attese, alle proprie angosce, alle proprie inquetitudini. È questa morte che è importante. Se questa morte prende veramente corpo in voi, constaterete che la riflessione sulla morte del corpo non può presentarsi.
La vostra cultura è localizzata nella vostra memoria e non è impossibile che, secondo l’età in cui partirete, la vostra memoria sia intaccata dagli anni.  Tutte le cose che avete accumulato, tutto ciò che avete letto, tutte le tecniche e le esperienze romantiche a cui vi siete dati, visto il deterioramento del vostro cervello, non vi saranno più possibili. Quindi tutte le vostre preparazioni sono inutili e non c’è niente da sapere.
La disponibilità al presente vi accompagna in ciò che è importante.
Tutte le riflessioni che potete fare sul tema sono solo una memoria. È un ammasso d’informazioni che avete appreso alla televisione o eventualmente assistendo amici morenti. È su questo accumulo di nozioni errate che basate la vostra idea di morte.
Dimenticate il grande maestro, il lama, tutte le persone che vorrebbero assistervi. La famiglia che s’ostina a piangere, le persone che dicono di aiutarvi e sono tristi sono una calamità. Voi morite tranquillamente, solo, su di un marciapiede o su un letto d’ospedale. Non c’è nessun bisogno d’essere circondato. Morire semplicemente, come si vive, liberamente.
Se la situazione comporta che la vostra famiglia in lacrime sia lì, bisogna accettarlo. Se il suo cattivo karma vuole che un lama tibetano persista a volervi venire in aiuto, o che un prete cattolico tenga a benedirvi, lasciatelo fare.
Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza psicologica.
La loro agitazione ritualizzata permette loro di rimandare la loro paura. Ma queste azioni psicopatiche non vi toccano affatto. Niente vi può aiutare e questo è la meraviglia, perché niente è necessario. Come la sera il corpo muore progressivamente nel sonno, il pensiero scompare, la percezione se ne va. Le persone che sono felici di vedervi partire possono restare. Quelli che sono tristi devono essere allontanati dal capezzale di un morente.
È una mancanza di rispetto, una mancanza d’amore essere afflitti.
I vostri amici veri gioiranno quando sapranno della vostra morte. Ciò che diciamo ora non è rivolto a tutti. Lo Yoga è l’arte di morire. Quando lavorate col corpo, imparate a morire. Non farlo a livello simbolico, ma in pratica. Imparate a vivere, è la stessa cosa.

Da un’intrvista ad Eric Baret – Tratto da 3ème  Millénarie n. 65 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

Davanti ai grandi interrogativi, come quelli del senso della vita e della morte, occorre dunque anzitutto una altrettanto grande anima, in grado di immergersi nelle domande senza anelare a risposte definitive. Occorre emanciparsi dalla presunzione di conoscere “la strada”, adottando invece l’apertura e l’attitudine dell’esploratore, che sa creare nuovi percorsi laddove il viaggiatore superficiale percepirebbe solo sbarramenti.

Di fronte a un tema abissale quale il senso della morte bisognerebbe passare in rassegna le molteplici risposte delle mitologie, delle religioni, delle filosofie e delle tradizioni spirituali dell’umanità […]. Occorre però avere la consapevolezza che tutte le discipline richiamate sono, ognuna a modo suo, un discorso dell’anima umana, un’investigazione su di sé di quella coscienza cui tutti noi partecipiamo. In questa prospettiva io penso che dobbiamo imparare a considerare le religioni e le filosofie diverse dalla nostra come qualcosa che ci appartiene; e anche chi tra noi non aderisce ad alcuna religione deve considerare tali argomenti (anche se non necessariamente le argomentazioni) come qualcosa che lo riguardano. Dicendo questo, non intendo favorire nessun sincretismo intaccando la specifica identità delle singole religioni; intendo piuttosto sostenere che l’atteggiamento spirituale più maturo è quello di chi sa, con le parole di Hegel, che «l’uomo non porta in sé come suo pathos un unico dio; ma l’animo dell’uomo è grande e vasto, a un vero uomo appartengono molti dèi, ed egli racchiude nel suo cuore tutte le potenze che sono sparse nella cerchia degli dèi; tutto l’Olimpo è raccolto nel suo petto». Chi guarda gli uomini con amore ed empatia capisce che, al fondo, non ci sono credenti e non credenti, o credenti in un modo o in un altro: ci sono esseri umani alle prese con il senso dell’essere e del vivere qui e ora, di cui la morte costituisce il più drammatico interrogativo.
A questo riguardo presento a titolo introduttivo tre brevi e incisive citazioni della tradizione ebraico-cristiana e una più lunga e articolata del buddhismo. La prima: «Memento mori», «Ricordati che devi morire»: è il motto dei monaci trappisti, ripreso dalla predicazione cristiana e ampiamente diffuso, soprattutto nel medioevo. La seconda: «Pulvis es et in pulverem reverteris», «Polvere sei e in polvere ritornerai»: sono le parole che Dio disse a Adamo dopo il peccato […]. Si capisce a questo punto il senso della terza citazione costituita dalle parole dipinte da Masaccio ai piedi della sua Trinità affrescata a Santa Maria Novella, con quello scheletro che rivolto a coloro che guardano dice: «Io fui già quel che voi siete, e quel ch’io son, voi anco sarete».
In uno dei testi più autorevoli del buddhismo, Il grande discorso sulla formazione della consapevolezza (in pali Satipaṭṭhānasutta), il Buddha dice così ai suoi discepoli: «O monaci, se un monaco vede un corpo morto da un giorno, da due giorni o da tre giorni, gonfio, livido e putrefatto, abbandonato nell’ossario, egli applica ciò che vede al proprio corpo così: “In verità, anche il mio corpo è della stessa natura, avrà la stessa sorte e non potrà sfuggirvi”.

Passi da Etica per giorni difficili di Vito Mancuso

Insicurezza, dubbio, paura sono emozioni che accomunano gli uomini di ogni tempo ed ogni luogo. Non si tratta di nemici da combattere, ed è proprio dalla loro forza e pervasività che nasce l’anelito alla trascendenza dell’uomo.

Se la felicità dipende sempre da qualcosa che si attende per il futuro, inseguiamo un fuoco fatuo che sfugge sempre alla nostra presa sino a quando il futuro, e noi stessi, non svaniremo nell’abisso della morte.
Di fatto la nostra epoca non è più insicura di qualsiasi altra. Miseria, malattia, guerra, mutamento e morte non sono nulla di nuovo. Nei tempi migliori la “sicurezza” non è mai stata se non temporanea e apparente. Ma è stato possibile rendere sopportabile l’insicurezza della vita umana credendo in qualcosa di immutabile al di là della portata delle calamità: in Dio, nell’immortalità dell’anima umana, in un universo retto dalle leggi eterne del bene.
Oggi queste convinzioni sono rare, anche negli ambienti religiosi. Non c’è alcuno strato sociale, e sono probabilmente pochissimi i singoli individui, toccati dall’istruzione moderna, in cui il dubbio non fermenti. È semplicemente lapalissiano che nel secolo scorso l’autorità della scienza si e sostituita all’autorità della religione nell’immaginazione popolare e che lo scetticismo, almeno nelle faccende dello spirito, è divenuto più generale della fede.

Passi da La Saggezza del Dubbio di Watts W. Alan

E se una certezza c’è per il vivente, questa paradossalmente è proprio la morte. Perché drammatizzare dunque?

SULLA MORTE SENZA ESAGERARE
Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wisława Szymborska (traduzione di Pietro Marchesani)